Articolo già pubblicato su: Effetto Risorse 18/05/2015
A dire il vero, molti si chiedono quando finirà la crisi e su questo i pareri fanno sostanzialmente capo a due scuole di pensiero. La prima dice che finirà fra 6 mesi, anzi, sta già finendo. La seconda sostiene che se ne riparlerà nel XXII° secolo. Vedremo, ma certo è una domanda molto difficile. Vorrei quindi cimentarmi con un’altra domanda, apparentemente più facile: quando è cominciata? “Nel 2008”.Risposta scontata, ma ne siamo sicuri?
Quando è cominciata la crisi ?
Per cominciare, l’unico dato disponibile in serie temporali lunghe è il famigerato PIL che, dovremmo saperlo oramai bene, tutto è tranne che un indicatore affidabile dello stato di salute di una economia. Ancor meno della qualità della vita della maggioranza della popolazione.
In ecologia, è rarissimo che si possa disporre di serie di dati statistici affidabili su periodi abbastanza lunghi. Si cerca quindi di ovviare mediante degli indicatori. Cioè di dati che non descrivono il sistema, ma che sono rappresentativi del suo stato e/o delle sue tendenze. Per fare un esempio, in assenza di dati sul numero di cervi in un parco, è possibile farsi un’idea della loro densità dal numero di tracce rilevabili sulla neve. Oppure, indipendentemente da quanti siano, si può capire se sono troppi o pochi osservando i segni sugli alberi. Analogamente, in assenza di dati sulla qualità di vita dei cittadini, è possibile farsi un’idea dal numero e dal tipo di scarpe vendute (tenuto conto della moda).
Per determinare lo stato di salute di un’economia i dati relativi all’occupazione sono particolarmente interessanti, ma estrarre delle tendenze concrete dalle tabelle ISTAT non è così semplice come potrebbe sembrare. Il tasso di occupazione dice infatti quale percentuale di cittadini ha un lavoro, ma non che tipo di lavoro.
Molto più interessante, a mio avviso, è uno studio dell’Università Bicocca di Milano,pubblicata “in tempi non sospetti”, vale a dire nel 2001. Lo studio riguardava il decennio precedente (dunque gli anni ’90) ed era focalizzato sul ricambio generazionale. In pratica: i figli facevano lavori migliori, peggiori od uguali a quelli dei loro genitori?
Ebbene, il risultato era già allora impietoso.
Per ogni categoria, si era tenuto conto del lavoro svolto dai genitori e di quello svolto dai figli. Ebbene, anche se negli anni ’90 un certo numero di figli riuscivano a scalare posizioni migliori di quelle dei propri genitori, era nettamente superiore il numero di figli appartenenti ad una classe sociale inferiore a quella paterna.
Ad esempio, ben il 46% dei figli di imprenditori e super-dirigenti era finito come funzionario ed un altro 22% come impiegato od operaio. Contro un 15 % di figli di funzionari ed un 5 % di figli di impiegati od operai che erano riusciti a scalare la vetta.
In complesso, la classe dei lavoratori molto ben pagati aveva subito una consistente perdita nel cambio generazionale, con una massa considerevole di rampolli che si erano trovati rigettati in una classe sociale subalterna quella in cui erano nati. Esattamente il contrario di quanto si era verificato a cavallo degli anni ’60.
Insomma, negli anni ’90 la disoccupazione non era un problema drammatico come oggi, ma l’ascensore sociale era già in avaria e quello che funzionava a pieno regime era piuttosto un efficace discensore sociale.
Contestualizzare il dato.
Un dato che, da solo, non dimostra alcunché, ma che è un indicatore molto, molto forte del fatto che, già venti anni fa, la crescita economica fosse finita, mentre la popolazione continuava a crescere.
“Una rondine non fa primavera” si diceva un tempo ed è corretto. Un solo indicatore, per di più puntuale, non significa niente. Può però diventare significativo se possiamo inserirlo in un contesto coerente. Le analisi in questo senso sono oramai perfino troppe, mi limito quindi a rimandare ai numerosi articoli di Antonio Turiel, Gail Tverberg e Richard Heinberg che, fra i molti, hanno forse meglio di altri sintetizzato i punti chiave della questione.
Qui mi limiterò a riprendere alcuni dati che ho già utilizzato in un precedente post. Sono dati resi disponibili da alcuni ricercatori della Massaciussets university che si sono presi la briga di rifare i calcoli del PIL USA al netto dell’inflazione, utilizzando per tutti gli anni gli stessi parametri di calcolo. Diversamente dal governo che via via li cambia.
Altri paesi hanno seguito parabole analoghe, anche se spostate nel tempo. Ad esempio, Cina ha avuto la sua fase di crescita economica reale più convulsa nei venti anni approssimativamente compresi fra il 1985 ed IL 2005 grazie ai massicci investimenti esteri ed al non meno massiccio trasferimento di impianti e tecnologie occidentali. In pratica, assieme ad altri, ha saputo sfruttare l’onda di mania suicida che ha colto le “economie avanzate” con la storica vittoria delle potenze capitaliste su quelle socialiste.
Ma sia pure con modi e tempi diversi rispetto agli altri paesi, anche in Cina il rallentamento dell’economia traspare oramai anche attraverso l’intensa manipolazione dei dati ufficiali, così come dal rilancio di forme di propaganda e di repressione che molti credevano oramai consegnati alla storia.
Dunque: “Quando è cominciata la crisi?”
Una risposta definitiva non sono in grado di darla, ma possiamo perlomeno distinguere fra diversi livelli. Considerando le economie “G7”, la stagnazione è probabilmente iniziata negli anni ’70. Venti anni dopo, negli anni ’90, la contrazione dell’economia reale ha subito una brusca accelerazione in conseguenza della vittoria militare e, soprattutto, politica sull’URSS. Un apparente paradosso, facilmente spiegabile con un fatto molto semplice: l’economia industriale è un gioco in cui ci sono necessariamente vincitori e sconfitti. Quelli che hanno le manifatture vincono, quelli che hanno le cave e le discariche (wells and sinks) perdono. Fra gli altri, lo aveva intuito Mohandras Gandhi e lo aveva spiegato Nicholas Georgescu-Roegen. Ma ancora non lo hanno capito i governanti occidentali che hanno incoraggiato e finanziato, a spese del contribuente, il trasferimento delle principali attività industriali in paesi esteri, solo perché praticamente privi di sindacati e di norme ambientali. Ne hanno usufruito altri stati, primo fra tutti la Cina, finquando i “Limiti della crescita” non hanno cominciato a fermare anche loro.
Il picco dell’economia globale forse è stato fra il 2005 ed il 2010. Probabilmente non a caso in corrispondenza con il picco globale della disponibilità di greggio, ma anche preoccupantemente in linea con i tempi dello scenario base dei “Limiti dello Sviluppo”.
Molti contesteranno questa idea con dovizia di dati, ma ritengo che, quando è scoppiato il bubbone nel 2008, la crisi fosse già consolidata da molti anni nel cuore stesso delle economie occidentali. Se la maggior parte di noi non ci aveva fatto caso è stato probabilmente per un insieme di fattori fra cui l’abitudine, il potere tampone del debito, il martellamento mediatico ed il fatto che, ancora, non erano stati toccati i patrimoni piccoli e grandi accumulati nella fase precedente. Man mano che i risparmi vengono erosi, le proprietà divengono un peso ed i vecchi dotati di buone pensioni muoiono, diviene semplicemente evidente una malattia che abbiamo oramai da molto tempo. Un po’ come quando ci si rende conto di avere l’AIDS, magari dopo venti o trent’anni che abbiamo contratto l’HIV.
Commenti recenti